La bambina era sotto le scale, calpestava il suolo del giardino ma guardava il portone spalancato della scuola. Piagnucolava inconsolabile nel suo caschetto castano e nei suoi abiti neri.
Due compagne erano con lei, una le accarezzava il braccio, l'altra la osservava un po' assente.
La maestra la chiamava dall'interno, "Saretta, vieni."
Due o tre volte, ma senza raggiungerla.
Non so perché la bimba non volesse entrare né perché si sfregasse gli occhi lì fuori, desiderosa di andarsene anziché di entrare con gli altri.
Non lo so ma lo posso intuire, perché Saretta lo sono stata anche io e sebbene il mio senso di responsabilità mi portasse ad evitare inutili capricci, la sola idea di entrare in classe mi rivoltava lo stomaco ogni mattina.
L'idea di stare lì seduta, sul legno di una sedia scomoda, con le gambe chiuse sotto un banco.
L'idea di doverci rimanere per ore, per lo più in silenzio, ad "apprendere".
L'idea di dover dividere lo spazio di un'aula con altri bambini a cui volevo bene, ma con i quali di fatto stavo condividendo un dovere.
L'idea stessa di quel dovere mi opprimeva.
E allora mentre passavo dinanzi la scuola e guardavo questa scena e spegnevo la musica ascoltando quel piagnucolio e quel "Saretta, vieni", ho pensato che non conta mai quanto sei bravo in qualcosa, ma quanta voglia hai di farla.
Che il dovere, per il solo fatto di esser tale, può diventare una gabbia anziché un'opportunità. Può esser fatto di sbarre, di cancelli, di lucchetti, di desideri spenti, bacchettati, messi da parte.
Ho riascoltato le parole di Omero, della scorsa settimana "questo è il tuo massimo, è il top per te? servire la gente lì dietro?"
"Non importa che lo sia o meno. Non importa quante altre cose avrei potuto fare, conta il sorriso con il quale entro qui dentro, con cui intrattengo le persone, l'entusiasmo con il quale mi impegno."
Lui non ha capito, ha scosso la testa, ha detto che il lavoro resta pur sempre lavoro e che l'obbligo non può piacere, soprattutto se non è davvero quello che avresti voluto o potuto fare.
Ho scosso la testa anche io, incapace di fargli capire che amare ciò che si fa, a prescindere da quale scalino si occupi, sia l'unico vero modo di non sentirsi in gabbia all'interno di un dovere. Bisogna andare a scuola per crescere, bisogna poi lavorare per vivere. Più si riesce a rendere l'obbligo sereno, meglio si dorme la notte.