mercoledì 27 gennaio 2021

Vite Parallele



C'era un film, parecchi anni fa. Si chiamava Sliling Doors.  
Narrava di come un piccolo ingranaggio saltato potesse cambiare sostanzialmente la vita di un individuo. E di come quella stessa vita sarebbe andata avanti qualora quel meccanismo non si fosse bloccato.
Il motivo per cui ci penso ora, così tanto tempo dopo averlo visto, è una scena che ho avuto davanti agli occhi solo pochi istanti fa.

Giorgia entra dalla porta. 
Ha i capelli corti ora e indossa un paio di occhiali. Non ha un filo di trucco. E' la stessa ragazza semplice e bella che ho conosciuto circa quattordici anni fa. La stessa voce, la stessa pelle diafana, gli stessi occhi chiari e limpidi.
Giorgia è l'ex storica di mio cognato. 
Più giovane di lui, sono stati insieme diversi anni, tra alti e bassi. E per stare insieme con mio cognato ce ne vuole. Di pazienza, di amore, di dedizione.
Ma oggi non è sola, porta con sé una carrozzina. Dentro c'è suo figlio, un bambino di cinque mesi che ora dorme cullato dagli ultimi raggi di sole del pomeriggio.

Mi è parso di sentire i pensieri di mio cognato.
Parole, emozioni, ricordi e sensazioni che gli si affollavano in testa come mosche. Ho sentito distintamente il ronzio di queste mosche raggiungergli il cuore, svuotarlo di tutto il sangue che conteneva. L'ho visto fluire via, a tradimento, uscirgli dal corpo tutto insieme lasciandolo smorto. 
Eppure sorrideva, parlava, fingeva di non aver pensato che quel bambino nella carrozzina avrebbe potuto essere il suo. 
Però quel pensiero c'era, io l'ho sentito. Era lì con lui, era qui con me.

Solo che la vita, la vita vera, non è fatta di questo.
Non è fatta di se, di ma, di cose che avrebbero potuto succedere e invece non sono accadute.
E' composta di fatti, di giorni messi l'uno accanto all'altro. Giorni che li hanno divisi per sempre, ma che dentro entrambi lasceranno sempre un solco. Un solco di cose spazzate via dal tempo, ed un altro solco, che si erige alto e snello come un corridoio, abitato da fantasmi. 

lunedì 25 gennaio 2021

Carta Carbone

Fonte: ilnuovoterraglio. it



Tirava un vento aguzzo, tagliente.
Ogni folata era una lama corrosiva, uno schiaffo in pieno viso.
Col cappuccio calato sulla testa cercavo di procedere in linea retta ma ondeggiavo come un lenzuolo bianco steso ad asciugare. Eppure non mi sentivo minacciata.
Guardavo i miei piedi volare sul marciapiede, veloci. Ero contenta. Appagata.
Non so neanche da cosa, in fondo mi ero appena svegliata e il tempo grigio e piovoso avrebbe dovuto mettermi di malumore come al solito. Invece ero serena, tranquilla, stranamente calma.
Arrivata al corso c'era un'allieva nuova, quasi sorda. E' stata una lezione di yoga atipica, in cui lei seguiva i nostri movimenti perdendosi probabilmente tutta la parte spirituale scandita dalle parole dell'insegnante. La lezione stessa era cadenzata, trattenuta, un poco sottotono per darle modo di imparare le basi.
Si è fermata ad aspettarmi, quando siamo uscite. Mi ha chiesto se lo yoga mi piacesse, da quanto lo pratico, se pensavo che le convenisse restare.
Le ho risposto con il solito entusiasmo con il quale ne parlo sempre e chissà, forse la rivedremo il prossimo lunedì.

Sono tornata a casa, il vento non era cessato ma era un poco meno violento.
Le gambe avanzavano con ancor più vigore. Avevo dietro la schiena il mio tappetino, una presenza rassicurante, ormai un prolungamento del mio corpo.
Mi sono sentita fortunata per quell'ora con le altre donne. Anche se tutte lontane. Anche se non ci siamo guardate mai abbastanza a lungo senza una mascherina in volto.
Fortunata per qualcosa che un tempo si poteva dare per scontato. Una parvenza di normalità, una copia sbiadita di socialità. Come quando con la carta carbone cerchi di trascrivere un documento su un foglio nuovo, che non sarà mai come l'originale, ma che guardi con un ghigno di soddisfazione per il lavoro compiuto.


giovedì 21 gennaio 2021

In Brutta Copia

Fonte: ohga. it


Ho scoperto un sito che ripubblica i miei post da anni, uno per uno. In fila come ordinati soldatini. 
In passato mi è successo tante volte, con l'altro blog, quello tematico.
Ma con questo qui...beh, non pensavo potesse accadere. Quando li ho visti ho strabuzzato gli occhi, sorpresa e ferita allo stesso tempo.
Sorpresa perché non mi aspettavo di rileggere altrove i miei pensieri scossi.
Ferita, perché è stato come vedermi nuda in un filmato porno che doveva esser confidenziale e che invece qualcuno aveva inopportunamente reso pubblico. 
E lo so che il paragone è esagerato, ma nelle mie emozioni sono spesso esagerata e se in questo caso non lo fossi, penserei che di questo blog mi importa zero.
E invece mi importa molto. Cento. Mille. Diecimila. E' davvero utile quantificare?

Ci sono pezzi della mia vita qui dentro.
Pezzi di me, fondamentalmente.
Un mucchietto di ossa lì.
Un occhio di là.
Qualche goccia di sangue sparpagliata a terra.
Ci sono pezzi di muscolo o capelli aggrovigliati. 
Ci sono il mio mare, il mio lavoro, la mia rabbia, le mie disillusioni, i miei sogni ad occhi aperti, le mie cadute e le mie risalite.

Quindi si, penso di aver tutto il diritto di sentirmi sia sorpresa che ferita.
Perché questo è un furto. 
E' entrare col passamontagna nella stanza di qualcuno e appropriarsi di qualunque cosa, indistintamente, senza adoperarsi neppure in una cernita. 
Lasciarla poi in disordine, con le ante degli armadi aperte, i cassetti divelti, le lampadine rotte.

lunedì 18 gennaio 2021

Vulcano

 

Fonte: unifimagazine. it

Mi sento una tale pressione addosso, per via di tutte queste norme da rispettare sul lavoro, che ho paura di sbottare da un momento all'altro.
Di mettermi a fischiare ed urlare come una pentola a pressione.
Come un vulcano che improvvisamente cominci ad eruttare lava rovente gettandola fuori tutta intorno a sé.
E' davvero un anno che facciamo questa vita?
Dodici mesi fa, proprio in questi giorni, iniziavano i nostri problemi con l'ex dipendente. Problemi che il 7 febbraio arrivarono al loro culmine e che mi fecero perdere completamente l'appetito.
Da un giorno all'altro smisi di mangiare, cominciando a nutrirmi con il contagocce, come se ogni piccolo boccone di cibo che introducevo nel mio corpo fosse fatto di spilli.
Poi il covid, la quarantena, il lavoro svolto con una parte del negozio smembrata, la merce che scadeva senza poterla vendere, l'affitto del negozio ed il mutuo della casa da pagare nonostante le entrate ridotte all'osso. 
E la gente. Dio mio, la gente.
Schegge impazzite che dovevamo tenere a bada senza riuscirci mai completamente, con un pugnale di paura di prender multe sempre puntato sulla schiena.
Ed oggi, oggi non è cambiato nulla.
Le stesse difficoltà, le stesse incertezze, le stesse schegge impazzite da seguire come se fossimo maestri d'asilo dietro degli infanti.

Vorrei poter non dover avere a che fare anche con questo menefreghismo dilagante.
Gente con il cellulare sempre in mano che dice di non sapere nulla delle restrizioni nei bar. Gente che cade dalle nuvole, alle quali bisogna spiegare tutto, che poi si agita, si indigna, se la prende con chi vorrebbe solo poter lavorare in pace.
Se almeno tutto questo teatrino ci venisse risparmiato.
Se almeno non dovessimo fare i poliziotti, i vigili, i tutori dell'ordine.
Se non dovessimo spiegare a chi sembra essersi appena svegliato da un lungo sonno che le cose stanno come stanno, e che vorremmo almeno un pizzico di collaborazione.
E invece no. Oltre al danno anche la beffa.


giovedì 14 gennaio 2021

Cacofonia

 

Fonte: La Repubblica

La pesantezza della sindrome premestruale.
Di quando il mondo sembra caderti addosso tutto insieme e non riesci a stendere neanche le braccia per parare i colpi. 
Le palpebre cadenti, un palloncino gonfio e dolorante all'altezza del basso ventre, il cuore che si agita convulso dentro la gabbia toracica.
E quel vorticare di pensieri, il clamore che suscitano agitandosi tutti nello stesso momento, come voci che si sollevino dal silenzio nel medesimo istante, fino a diventare cacofonia. 

E vorresti solo chiudere gli occhi. 
Metterti a letto a pancia in giù.
Sentire il calore di una coperta sulle spalle, sulla schiena, sui piedi.
Ma la vita ti chiama, non ti aspetta, non ha pietà del tuo malessere. Devi restare sveglia, all'altezza della situazione. Devi fare tutto quello che fai sempre anche se non sei la stessa di ogni giorno, anche se senti che ogni respiro diventa faticoso, anche se le ore che ti separano da una nuova notte ti sembrano eccessivamente lunghe.

Vorresti un giorno di tregua.
Di quiete.
Da sola.
Senza dover aprire la bocca per parlare.
Senza doverti preoccupare delle mille cose di cui ti preoccupi ogni giorno.
Vorresti semplicemente sparire, non farti trovare, sbarrare la porta e non aprire a nessuno. E non doverne uscire, soprattutto. Lasciarti cullare dal buio di una stanza vuota, con le ginocchia al petto, un silenzio perfetto che t'avvolge.

domenica 10 gennaio 2021

Un po' Fuoco Ardente, un po' Ghiacciaio

 

Fonte: bastet. it

Ho abbracciato per la prima volta un altro essere umano a vent'anni.
Assurdo, no?
Che se ci penso mi vengono i brividi. E non di freddo, ma di spavento.
Perché avrei potuto non farlo mai. 
Avrei potuto evitare quel contatto all'infinito, condividendo persino il sesso senza offrire e prendere qualcosa di diverso dal piacere fisico.
Prima e dopo quel fatidico varco ho coltivato centinaia di rapporti, con le persone più disparate, senza toccarle mai. O facendolo senza che questo mi coinvolgesse davvero, senza che la cosa avesse realmente a che fare con quello che c'è sotto la pelle. 
Certa che la pelle sia già molto. E avendole attribuito un gran valore fin dalla tenera infanzia.

Ho abbracciato per la prima volta un altro essere umano a vent'anni.
Assurdo, no?
Eppure qualcuno ha dovuto insegnarmi come fare.
Come distendere le braccia. Come porgerle intorno ad un altro corpo. Come permettergli, soprattutto, di stare fermo ed immobile addosso al mio.
Sulla pancia, sul cuore, presso le zone più vulnerabili di me.
Non una pacca, non un saluto, non un gesto quasi involontario, non un tocco sbrigativo di chi si stringe appena senza mettersi realmente in contatto, senza toccarsi.
Intendo proprio un abbraccio vero. Quello in cui due persone si fondono fino a percepire ciascuno il cuore dell'altro. Fino a sentirsi come se quel cuore estraneo ci sbalzasse incontro e ci afferrasse. Come se diventasse nostro, come se i battiti potessero calibrarsi e divenire simultanei. 

Forse era quello che non volevo.
Lasciarmi afferrare.
Trattenere. 
Era quello che Fred mi doveva insegnare. 
A Fred io devo molte cose, ma più di tutto gli devo questo.
Avermi insegnato che non esiste un modo più autentico, più forte, più intenso e più intimo di comunicare dell'abbraccio. 
Gli devo la tenacia con la quale ha fatto in modo che io lo abbracciassi. Senza ridere di me se non ci riuscivo, se tendevo a scappare, se non sapevo restare.
Gli devo la perseveranza con la quale per un intero anno ha rimesso le mie braccia intorno a sé tutte le volte in cui le lasciavo cadere, senza offendersi, senza farmi sentire emotivamente impreparata. 
Gli devo l'Amore, fondamentalmente.
Quello di cui mi ha ricoperto. Ma anche e soprattutto quello che ha saputo tirar fuori. 
E io lo so, quanto è vero che mi chiamo Sara, che se anche un giorno noi dovessimo prendere strade differenti, per qualsivoglia motivo...io lo so che mai nessuno potrà prendere il suo posto dentro di me. Perché esiste solo lui. Nel mio cuore. Sotto la mia pelle. In ogni molecola di questa sgangherata persona un po' donna, un po' bambina, un po' fuoco ardente e un po' ghiacciaio. 


"A te che mi hai trovato
All'angolo coi pugni chiusi
Con le mie spalle contro il muro

Pronto a difendermi

Con gli occhi bassi

Stavo in fila con i disillusi

Tu mi hai raccolto come un gatto

E mi hai portato con te."

(Jovanotti)

lunedì 4 gennaio 2021

Scudi

 

Fonte: Google

Pur con le sue limitazioni dovute al decreto, ieri ho ripreso il lavoro.
Piove e fa freddo, la grandine si è abbattuta sull'asfalto con la stessa grazia scomposta di quando da bambini tiravamo sassi appuntiti sull'erba. La guardavo al di là del vetro, mentre svolgevo i miei soliti compiti con la solerzia pronta di chi è riuscito a riposare un po'.
E mentre pagavo bollette o giocavo numeri, mentre guardavo la grandine o la pioggia o il nero della notte scendere su questo pomeriggio di inizio gennaio, mi congratulavo con me stessa per aver chiuso in cassaforte, ormai molti anni fa, le sensazioni negative dovute a quelle amicizie che inevitabilmente mi deludono.
La frustrazione, il dolore, la consapevolezza di aver regalato perle ai porci. 
Tutte cose morte, che non mi appartengono più.
Mentirei se dicessi che il comportamento dell'unica amica che ho qui non mi abbia lasciato un po' di amaro in bocca. Mentirei se affermassi di non essermi neppure fatta sfiorare.
Ma dico il vero quando dichiaro che il dolore non c'è. Cristallizzato, assuefatto, incenerito.
Devo dire grazie ai miei scudi, alle mie barriere, a quelle porte chiuse a doppia mandata oltre le quali ho scelto di non far più entrare anima viva. 
Non credo più nell'amicizia. Non ci credo più da tanti anni.
Posso passare del tempo piacevole con qualcuno. Il tempo di una cena, di una seduta di shopping o di una lezione di yoga. Posso persino ascoltare o condividere qualche spicciola confidenza.
Ma nel mio intimo, nella zona più calda, avvolgente e limpida di me stessa...beh, in quella zona resto da sola. E se un tempo questo mi avrebbe fatta stare male, ora alzo le spalle e vado avanti, conscia che nella vita non si possa avere proprio tutto, e che io ho già molto.
Molte cose di cui esser grata, cose che mi rendono felice e che per me sono più importanti di un sentimento effimero dal quale doversi sempre guardare le spalle.