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Fonte: hinelson. com |
Mai come in questo periodo mi è successo di apprezzare tanto chi mi fa fare una risata. Solo che capita così di rado, da un mese a questa parte, che sto dimenticando come si fa.
Com'è che si svuota il cuore, e il cervello, e il pensiero e si apre la bocca, sonoramente, poi ci si piega in due per quel piacevole dolore sulla pancia. E dunque ci si ritira su e gli occhi hanno fatto le rughette e si ridistendono sereni, luminosi, più belli.
E anche loro, le persone che di solito mi facevano ridere, hanno dimenticato com'è che si fa una battuta, come si porta a sé stessi e agli altri il buonumore.
Sensazioni cristallizzate, congelate, svuotate per essere riempite più avanti.
Messe in stand by.
Perché cosa c'è da ridere, adesso?
Non è una forzatura fingersi allegri in un momento che di allegro non ha nulla?
Il lavoro è sempre più precario ed incerto. Il virus si diffonde tra la gente insieme alla paura, il malcontento, la disperazione e mille altre emozioni negative che talvolta si scontrano l'una contro l'altra fino a provocarsi lividi che poi restano bluastri o verdognoli sulla pelle. Pelle che si fa via via più sottile, trasparente, che quasi avrebbe voglia di scomparire, volatilizzarsi, confondersi con un muro o una quercia o un pezzo d'asfalto rotto lungo la strada.
Questo blog raccoglie i miei attimi di smarrimento. Quelli in cui mi chiudo all'interno di una stanza immaginaria a far uscire la sensazione di essermi perduta dentro un film anoressico che sembrava un cortometraggio e invece non finisce più. Un film proiettato lungo i muri, pareti che si divertono a lanciarne fuori i fotogrammi come fossero quadri appesi di un pittore neorealista.
Ma poi, al di là di questa stanza, cerco di essere la solita me.
Che lavora, si impegna, si alza presto al mattino, fa sport, pulisce casa, prepara da mangiare, guarda una puntata di Lucifer alla sera.
Tutto normale, tranne quella mancanza di voglia di ridere che aspetto di veder tornare come una naufraga dopo una mareggiata.