venerdì 29 maggio 2020

Senza Zucchero

Fonte: theconversation. com


Passano davanti al negozio tutti i pomeriggi.
Mi capita di vederli in automobile, oppure sono a piedi con la bambina ed un'amica.
Mi viene male allo stomaco tutte le volte. E tachicardia.
Non l'ho superata, ha detto bene mio cognato ieri, rimproverandomi.
Dice che basta così, che non posso restare a quei momenti, che non ci faranno più del male, che non dovrò più averci a che fare.
La vedo che ci osserva e poi scosta la faccia. A volte è la sua amica a guardarci, a captare notizie da riferirle. 
Non ho guardato Emma, è andata ormai, un ricordo dolce amaro che ancora un po' mi fa tremare.
Le ho anche sognate, lei e la bambina. Tutti dentro in una stanza, i miei zii, i miei genitori, la mia famiglia per intero. Fred e mio cognato. E loro due, venute a "salutarci" con quel tono mellifluo e pericoloso.
Ed io che tremo, che non mi fido, che sto male, che voglio scappare, che so che è tutta una finzione prima di un altro attacco.
Poi mi sveglio, il sogno finisce, non ci penso fin quando non le rivedo passare davanti alla vetrina.

Non ho più mangiato dolci da quel giorno di tre mesi e mezzo fa. Chissà perché l'amarezza si è manifestata in questo modo, con un totale rifiuto verso tutto ciò che possa contenere zucchero.
Una sorta di punizione che ho somministrato a me stessa per non aver ascoltato l'istinto, il sesto senso, quel brivido sulla schiena tutte le volte in cui mi scontravo con la latente falsità che impregnava ogni loro gesto. 
Eppure gli ho voluto bene. Troppo forse.
Bene passato dal cuore alla discarica nell'arco di un quarto d'ora.

martedì 26 maggio 2020

Early Bird

Fonte: focus. it


Una volta scattai la foto di una bellissima alba rossa. Un'amica, ammirandola, la scambiò per un tramonto. Quando le dissi che era stata immortalata alle sei del mattino, mi disse che avrebbe dovuto intuirlo dal momento che sono un early bird.
Quella definizione, attribuita quasi per scherzo all'interno di un discorso giocoso, mi fece sorridere. E soprattutto, mi fece stare per la prima volta all'interno di un'etichetta che potessi sentire mia al cento per cento, nella sua totalità.
Sono tante cose nella mia vita, ma forse mi sento soprattutto questo. Un uccello del mattino.

E quando esco presto, quando sento l'aria fresca avvolgermi tutta in una solitudine perfetta e variopinta, sono davvero in comunione con me stessa e con tutto ciò che mi circonda.
Quella prima ora è il miglior contenitore nel quale possa desiderare di essere.
Ed è un contenitore senza pareti, dove tutto fluisce libero e privo di costrizioni.
Dove posso accarezzare un sogno di pace, di estasi, di libertà purissima.

Magari arrivo alla sera stravolta e stremata, con i sensi attutiti e le membra torpide, ma per nulla al mondo rinuncerei a scaraventarmi dal letto alle prime luci del mattino, quando il mondo inizia ad affacciarsi radioso con i suoi colori nitidi e pieni di vigore.
Quando sento le energie scalpitare per la voglia di uscire, di vederlo questo mondo che si risveglia, di esserne spettatrice grata ed entusiasta.

Domenica mattina non sono andata a camminare perché di lì a poco avremmo avuto altre cose da fare. Però alle sei e mezzo ero in terrazzo, ad annusare quell'aria ancora pura e bellissima, mangiando ciliegie per colazione e tenendo un libro sulle ginocchia. Era un tripudio di uccelli canterini che svolazzavano da un balcone all'altro, festosi, ignari di quello che stava accadendo nel mondo e quindi liberi di essere semplicemente se stessi, esseri minuscoli con un'ugola d'oro.
Ero felice, di una felicità  che non ha bisogno di altro né di tante spiegazioni perché bella esattamente così. Delicata, eterea, eppure intensissima.


mercoledì 20 maggio 2020

La Scatola

Fonte: Amazon


E' un ricominciare confuso, che ha ben poco a che vedere con tutto ciò che era stato congelato nei primi giorni di marzo.
Chiudi una scatola sperando che quando arriverà il momento di riaprirla tutto ciò che avevi messo all'interno sia rimasto perfetto al suo posto, e invece poi trovi disordine, sporcizia, incuria. Come se qualcuno di poco accorto ci avesse messo le mani e l'avesse insozzato.
E' tutto diverso a lavoro.
E per diverso intendo più brutto, più complicato, più deludente. Uno scenario desolante che contorce lo stomaco.
Quindi non ne parlo, che non ne ho voglia e non me la sento. 
Spero che tutto si sistemi, questo si. Ma per sperare non c'è bisogno di aprir bocca.

Al mattino esco alle sette. Cammino veloce come una dannata, come rincorsa da un leone.
Ma in realtà quelli sono i momenti migliori, quelli in cui posso stare da sola con me stessa ed il mio corpo, senza necessariamente dover pensare a qualcosa.
Raggiungo il mare, inalo aria come chi ne ha dovuto fare a meno per troppo tempo, osservo le onde infrangersi sul bagnasciuga, calpesto la sabbia umida, scarico lo stress accumulato il pomeriggio precedente. E va meglio. 
C'è un po' di tutto in quei momenti, tutto quello che mi serve.
Il resto è distante, solo un puntolino all'orizzonte. Se strizzo gli occhi addirittura scompare.

mercoledì 13 maggio 2020

Lucciole di Notte

Fonte: mammeamilano. com


Sono tornate le lucciole, mi hanno detto.
Le hanno viste danzare in una serata buia, proprio in quei luoghi in cui nei lontani mesi di maggio della mia infanzia le vedevo volteggiare illuminando la notte.
Me le ricordo leggere e delicate muoversi in gruppo come minuscole fiaccole. Ne subivo il fascino come se fossi stata metallo attratto da una calamita e piccola com'ero mi affannavo a volerne catturare almeno una per cercare di capire dove si accendessero.
Poi un anno, all'improvviso, smisero di arrivare. Non ce n'erano più. 
Si era persa la magia senza che si potesse avere modo di recuperarla.

E quest'anno, nello scenario più triste e desolante che ci potesse essere, quella magia è tornata.
E pur senza vederla, mi è bastato sapere che c'erano di nuovo lucciole dove le andavo sempre a cercare per sciogliermi in un sorriso.
Ricordare quei momenti. Quelle persone. Quelle lucine nel buio.

domenica 10 maggio 2020

Rivedersi

Fonte: nonsprecare. it

Il giardino era più bello di come l'abbiamo lasciato due mesi e mezzo fa. 
La primavera è scoppiata durante la nostra assenza e i fiori della mamma ci hanno accolto festosi in una danza di sublimi colori. Ovunque volgessi lo sguardo era un tripudio di rossi, di violetti, di gialli, d'arancio, di fucsia accesi, di pallidi rosa, di verde in ogni sua allegra sfumatura.
Ho sorriso. In quel momento sapevo d'essere esattamente dove dovevo. 
Anche se non volevo farmi convincere. Anche se volevo star lontana da ciascuno di loro ancora per un po', nella vana speranza di tutelarli il più a lungo possibile.
Anche se le mie idee si sono presto scontrate con quelle di tutti gli altri. Che hanno vinto, certo, ma che hanno fatto vincere anche me.
Non ci siamo baciati né abbracciati. Ma potevamo finalmente guardarci in faccia, addosso, negli occhi. 
Pur avendo sentito lo sguardo di mia madre soppesarmi per tutto il tempo, in quel momento ho capito che andava bene così. Che una madre si preoccupa sempre, spesso non a torto, e che sarebbe stato ingiusto toglierle quel compito.
Dunque mi sono lasciata guardare. L'ho ascoltata mentre mi intimava di mangiare di più. Si è preoccupata anche per altri aspetti, che non menzionerò qui, e che me l'hanno mostrata con una determinazione ferrea che ben poche altre volte le ho visto indossare.
Soprattutto l'ho vista sorridere quando le ho chiesto di regalarmi due mele rosse che aveva in cantina. Dev'esserle sembrato un traguardo sentirsi chiedere qualcosa da me che chiedo, da sempre, il meno possibile. 
Mio padre era sereno ma un po' distante, insonnolito. Si alza presto la mattina e poi dormicchia tutto il giorno. Sta invecchiando. 
E poi mio fratello, che solo pochi giorni fa ha compiuto trentadue anni e che in quarantena, seduto almeno dieci ore al giorno davanti ad un pc a far riunioni a distanza, è lievitato come un porcellino.
Eravamo di nuovo noi, mi sono trattenuta più del solito, ho parlato poco ma sorriso spesso e quando sono venuta via avevo il cuore più calmo. Forse anche più gonfio. 

lunedì 4 maggio 2020

La Prima Uscita

Fonte: Tregione. it

Riguardo quando avrei rivisto il mare avevo un'unica certezza.
Ero sicura che avrei pianto.
E non un pianto normale, pacato, di quelli che fanno tenerezza.
Lo immaginavo come un pianto osceno, disperato, convulso, che sconquassa le spalle, dà dolore alle reni, preme forte sugli addominali.
E invece, quando sono entrata sul lungomare deserto, quelle lacrime che pensavo di versare non ne hanno voluto sapere di scendere dagli occhi.
Se ne stavano quiete al di là di essi, forse addormentate, forse rispettose di quel momento che volevano lasciare a me sola.
Ero felice. Entusiasta. Allegra. Piena di una gioia incontenibile che sentivo vibrarmi addosso come il titillo delle corde di un'arpa.

Ero lì, finalmente. Nel mio posto.
L'emozione che anziché salire leggera e crescere pian piano, scoppiava dentro come un boato. Un cataclisma. Un rumore assordante. Una paralisi di sensazioni che mi lasciavano completamente riempita dopo tanto vuoto e tanta prostrazione.

E quando sono tornata a casa, quando sono riuscita a violentare me stessa per staccarmi di lì, sentivo ancora addosso le lingue di quell'adrenalina un po' pazza e un po' meravigliosa. Ero ancora preda di tutto quel rumore che m'aveva riempito le orecchie ed ogni fibra. C'era ancora tutto, non se ne andava, mi è rimasto appiccicato addosso, colla inestinguibile.
Neanche l'aggressione verbale di una tizia che da lontano mi aveva appellata in malomodo era riuscita a scalfire quel senso di benessere, quella pienezza.
Perché in casa posso fare tutta l'attività fisica di questo mondo - e ne ho fatta tanta in questi due mesi - ma camminare velocemente è tuttora la migliore meditazione che io possa fare.