mercoledì 29 aprile 2020

Scaldando I Motori

Fonte: wordpress


Inizio a scalpitare, a riprendere un poco di colore sul viso.
Probabilmente del tutto immaginario, perché in realtà non sono mai stata più bianca di così.
Sto scaldando i motori.
Ho una voglia di uscire, di far lavorare le gambe, che metà basterebbe.
E non mi dite che bisogna pensare anche a tutto il resto perché sono stufa di farlo.
Stanca di pensare ai doveri, ai problemi, alle incertezze dentro le quali stiamo vivendo e alle ulteriori difficoltà che ci piomberanno addosso come bombe dal cielo.
Al momento ho un obiettivo, uno solo, e quell'obiettivo è tornare a camminare, rivedere il mare, riprendermi. 
Farmi invadere da tutto quell'insieme di sensazioni che mi sono mancate come se fossi stata per tutto il tempo sott'acqua e non avessi potuto vedere il sole. Completamente sommersa, con la pelle che cadeva a pezzi, gli occhi che galleggiavano insieme ai capelli e ai vestiti.

E' ora di risollevare la testa, di riprendere aria, di respirarla a pieni polmoni. 
E lo so che posso farlo solo immergendomi nuovamente in quel limbo confortante che è un po' come una famiglia, una dimora, un universo di colori da cui non poter staccare gli occhi.
Il mare. L'asfalto sotto le gambe. Le nuvole. Gli alberi. I fiori che immagino saranno sbocciati ai lati delle strade. Le macchie rosse dei papaveri a colorare prati incolti di sterpaglie abbandonate. Le case stanche. Le automobili distanti e sconosciute.
La vita lì fuori.
Mi basta questo. Per il quattro maggio a me basta questo. 

domenica 19 aprile 2020

Il Cane e Il Gatto

Fonte: gcomegatto. it


Sono le venti, i rintocchi della campana arrivano fin qui, valicano le finestre aperte, arrivano dritte alle mie orecchie. Mi ritrovo a sorridere. Chissà perché questo scampanellio mi sembra un pezzo di  meravigliosa normalità, un allegro ritornello che stride positivamente con il grigiore dell'ennesima domenica di clausura.

Che, pur nella sua ripetitività, non è andata affatto male.
Ho fatto un'ora di yoga. Ho cucinato per Fred. Ho ripreso a leggere un classico di Jane Austen. Ho fatto una lunga doccia dopo aver esfoliato il corpo. Ho finito di vedere un film che avevamo iniziato ieri sera. Ho ripulito a dovere la cucina.

Tutto ciò è così distante da quello che solitamente facevo di domenica eppure, nonostante tutto, piacevole. 
Togliendo la noia, l'assenza quasi totale di sole, l'adagiarsi lentissimo di un tempo che prima scorreva così veloce da appiattirsi fino a diventare frenetico ed inconsistente. Togliendo le cattive notizie, le preoccupazioni e tutta quella serie di problematiche che ormai conosciamo tutti così da bene che parlarne è diventato ridondante. 
Asportando via tutto questo, come se fosse il pezzo marginale di un puzzle da poter nascondere senza che si perda il senso del quadro... resta tempo tutto sommato accettabile. 

Mia madre stamattina mi parlava del nostro gatto che ha fatto amicizia con il cane dei vicini. Il cane va a trovare il gatto, il gatto va a trovare il cane. Si siedono vicini e si contemplano, si parlano con gli occhi senza emettere un solo fiato, si capiscono al volo senza litigare mai.
E quell'immagine, del mio gatto rosso che ora ha un amico cane, mi fa sorridere così tanto e così a lungo che forse è la cosa più bella che sia accaduta oggi. 

martedì 14 aprile 2020

Come Un Fuscello

Fonte: flickr. com



Piove ed era tanto che non accadeva.
L'odore di bagnato arriva fin qui, umido e campestre come lo ricordavo. 
Guardo attraverso la finestra con un'aria un po' assonnata, spenta, desiderosa di altri scenari. 
Sono stufa di vedere soltanto il palazzo di fronte. Stufa di guardare il tramonto dalla solita angolazione.
Le feste sono passate in sordina, eppure ci sono stati attimi in cui le ho avvertite dentro come se stessero esplodendo. Ho elaborato il piano della distrazione. Le pulizie, gli allenamenti, un buon ragù da portare in tavola, il sole al pomeriggio, qualche classico Disney con cui ridere con Fred. 
A volte basta non pensare, ma si può davvero? 
Per quanto tempo può funzionare?
Una volta che hai fatto tutto quello che dovevi e certi angoli sono diventati lindi e trasparenti come specchi. Una volta che hai calpestato tutto il suolo calpestabile. Dopo aver elencato i tantissimi motivi per i quali puoi ancora sentirti serena nonostante tutto.
Dopo tutto questo andirivieni distraente che non distrae abbastanza, ci si può finalmente pensare o no? Siamo ingrati se lo facciamo? Stiamo facendo vittimismo?
O è lecito soffrire per una situazione estrema in cui la mancanza di libertà permea e invade ogni poro della tua pelle?
Quando hai vissuto all'esterno la maggior parte del tuo tempo. Quando hai abbracciato alberi con gli occhi, osservato nuvole rincorrersi, albi spettacolari alle sei del mattino, onde perfette, rondini volteggiare, volpi uscire di notte dalla propria tana, lucciole di maggio.
Quando hai vissuto la tua intera esistenza sentendoti te stessa soprattutto in quel mondo immenso e fiabesco chiamato natura, come puoi restare più di un mese chiusa dentro quattro asfittiche mura e non cedere? Non farlo neanche un po'?
A volte mi sento resistente come uno di quegli arbusti che si piegano al vento senza spezzarsi. Altre, invece, sento di essermi già spezzata e ricomposta più volte. 

martedì 7 aprile 2020

Tre Giorni ad Agosto

Fonte: Napoli turistica


All'epoca c'erano solo un paio di scalini che conducevano ad un minuscolo pianerottolo. Vi era anche un cancello ma non l'ho mai visto chiuso.
Ci andavamo a giocare noi bambini, anche se non ci apparteneva. 
Al di là della strada la casa dove mia madre era nata e cresciuta, in quel paesotto in provincia di Napoli col nome musicale dove non ricordo di aver mai trascorso più di tre giorni l'anno.
Di quella casa mi piacevano le mattonelle del salotto. Erano particolari, non ne avevo mai viste così. Bianche e lucide con un motivo blu e marrone che a dirlo così sembra una cosa strana e infatti era una cosa strana. Sembravano volute di fumo o schizzi di colore che qualcuno aveva buttato lì disegnando qualcosa che in fondo non esisteva.
La casa era piccola ed aveva sempre lo stesso odore. Un po' me lo ricordo e credo che se lo ritrovassi altrove lo riconoscerei tra mille altri. 
La cucina era minuscola, stretta, una sorta di corridoio che portava ad un bagno altrettanto angusto. La doccia non aveva il piatto e ogni volta che ci si lavava l'acqua andava a finire dappertutto. Ed io che detestavo sporcare, peraltro in un luogo diverso da casa mia, mi lavavo a pezzi con maniacale perizia. A volte era occupato persino il bidet perché ci andava a dormire il grosso gatto persiano di mia zia. Era un gattone viziato di Milano, rossastro, che a volte ti guardava dritto negli occhi anche mentre facevi pipì. 
Dormivamo tutti nella stanza padronale, che in realtà non era grande, però erano così gentili da lasciarla a noi. Mio fratello fintanto che era piccolo dormiva tra mamma e papà ed io mi accucciavo in una brandina ai piedi del letto grande. 
Faceva sempre troppo caldo, si sudava come a casa mia non avevo sudato mai, e le zanzare banchettavano notte e giorno sulle mie povere gambe di porcellana.
Era una situazione inquietante, tutt'altro che comoda, e a volte mi ritrovavo a pensare che quei tre giorni d'agosto dovessero finire presto, così da poter tornare alla mia vita, alla mia cameretta, ai miei soliti agi.

Però in quei giorni mia madre era felice, sicuramente più di quanto fosse un intero anno chiusa in una casa più grande con quel mostro di suocera che era la mia tremenda nonna.
Sorrideva mia madre. Aveva denti bianchissimi e regolari che non aveva timore di mostrare a tutti i parenti che passavano a trovarci. C'era una luce diversa nei suoi occhi, come una nostalgia placata, un senso di pace e di quiete, una ritrovata armonia.

Ce ne andavamo in giro per il paese con la mano ben salda dentro quella dei nostri genitori. Le strade erano anomale, al posto del semplice asfalto vi erano grosse piastrelle scure ed irregolari che chiamavano vasoli e che vedevo solo lì. Pensavo sempre che da grande non avrei potuto tornarci con i tacchi a spillo perché vi si sarebbero infilati in mezzo e sarei caduta.
Passavano motorini con due o tre persone attaccate, anche bambini, tutti senza casco. Li guardavo come figure mitologiche e mi chiedevo dove fossero i vigili, perché non gli facessero la multa.
Entravamo nel negozio di alimentari di Guglielmo e me lo ricordo come uno spilungone moro con la battuta sempre pronta. Avevo paura di lui perché mi prendeva in giro, mi chiedeva sempre dove avessi lasciato il mio fidanzatino e io mica gli potevo dire che ne avevo almeno un paio ma che me ne piaceva un terzo perché aveva i capelli lunghi. Allora gli mettevo il broncio e lui rideva di me come se fossi la visione più buffa del mondo. Tenevo le braccia conserte e le labbra serrate, gli occhi stretti come quelli di un gatto arruffato. Però lì compravamo cose buone e forse non ho mangiato mai mozzarelle come quelle o sentito più quei profumi di salumi freschi che mi facevano venire l'acquolina in bocca anche al mattino.
Per la strada le persone ridevano, scherzavano, si urlavano da balcone a balcone. Era un'atmosfera surreale, giocosa, scomposta. E mi piaceva, nella sua stranezza la trovavo bellissima, pittoresca, una di quelle cose che non ti scordi più. Avevo imparato a comprendere il dialetto di quelle persone che non conoscevo e che popolavano le strade ad ogni ora del giorno e della notte. Quella lingua armoniosa mi entrò nelle orecchie a poco a poco e tuttora, quando l'ascolto per caso, un po' mi fa battere il cuore.

Era tutto strano per me ma quando poi dovevo ripartire mi veniva nostalgia. Nascondevo una lacrima appoggiando la faccia al finestrino mentre vedevo sfilare via le case, la gente, i panni stesi ovunque, i vicoli, e poi i paesaggi e dunque niente, eravamo già in autostrada.

E allora a volte mi capita di pensarci la notte, nei momenti in cui mi sveglio e fatico a riprendere sonno. Di pensare a quella parte della mia vita che non tornerà più, con la mano stretta in quella di mamma o papà a passeggiare per quelle vie che mi sono rimaste nel sangue, negli occhi, nel cuore. Quegli anni in cui erano tutti più belli e più giovani, in cui gli zii erano ancora vivi, in cui per parlare si urlava e venivamo trattati come stranieri, gente di Roma, e c'erano quelle belle piastrelle in salotto che non scorderò mai.