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Fonte: Napoli turistica |
All'epoca c'erano solo un paio di scalini che conducevano ad un minuscolo pianerottolo. Vi era anche un cancello ma non l'ho mai visto chiuso.
Ci andavamo a giocare noi bambini, anche se non ci apparteneva.
Al di là della strada la casa dove mia madre era nata e cresciuta, in quel paesotto in provincia di Napoli col nome musicale dove non ricordo di aver mai trascorso più di tre giorni l'anno.
Di quella casa mi piacevano le mattonelle del salotto. Erano particolari, non ne avevo mai viste così. Bianche e lucide con un motivo blu e marrone che a dirlo così sembra una cosa strana e infatti era una cosa strana. Sembravano volute di fumo o schizzi di colore che qualcuno aveva buttato lì disegnando qualcosa che in fondo non esisteva.
La casa era piccola ed aveva sempre lo stesso odore. Un po' me lo ricordo e credo che se lo ritrovassi altrove lo riconoscerei tra mille altri.
La cucina era minuscola, stretta, una sorta di corridoio che portava ad un bagno altrettanto angusto. La doccia non aveva il piatto e ogni volta che ci si lavava l'acqua andava a finire dappertutto. Ed io che detestavo sporcare, peraltro in un luogo diverso da casa mia, mi lavavo a pezzi con maniacale perizia. A volte era occupato persino il bidet perché ci andava a dormire il grosso gatto persiano di mia zia. Era un gattone viziato di Milano, rossastro, che a volte ti guardava dritto negli occhi anche mentre facevi pipì.
Dormivamo tutti nella stanza padronale, che in realtà non era grande, però erano così gentili da lasciarla a noi. Mio fratello fintanto che era piccolo dormiva tra mamma e papà ed io mi accucciavo in una brandina ai piedi del letto grande.
Faceva sempre troppo caldo, si sudava come a casa mia non avevo sudato mai, e le zanzare banchettavano notte e giorno sulle mie povere gambe di porcellana.
Era una situazione inquietante, tutt'altro che comoda, e a volte mi ritrovavo a pensare che quei tre giorni d'agosto dovessero finire presto, così da poter tornare alla mia vita, alla mia cameretta, ai miei soliti agi.
Però in quei giorni mia madre era felice, sicuramente più di quanto fosse un intero anno chiusa in una casa più grande con quel mostro di suocera che era
la mia tremenda nonna.
Sorrideva mia madre. Aveva denti bianchissimi e regolari che non aveva timore di mostrare a tutti i parenti che passavano a trovarci. C'era una luce diversa nei suoi occhi, come una nostalgia placata, un senso di pace e di quiete, una ritrovata armonia.
Ce ne andavamo in giro per il paese con la mano ben salda dentro quella dei nostri genitori. Le strade erano anomale, al posto del semplice asfalto vi erano grosse piastrelle scure ed irregolari che chiamavano vasoli e che vedevo solo lì. Pensavo sempre che da grande non avrei potuto tornarci con i tacchi a spillo perché vi si sarebbero infilati in mezzo e sarei caduta.
Passavano motorini con due o tre persone attaccate, anche bambini, tutti senza casco. Li guardavo come figure mitologiche e mi chiedevo dove fossero i vigili, perché non gli facessero la multa.
Entravamo nel negozio di alimentari di Guglielmo e me lo ricordo come uno spilungone moro con la battuta sempre pronta. Avevo paura di lui perché mi prendeva in giro, mi chiedeva sempre dove avessi lasciato il mio fidanzatino e io mica gli potevo dire che ne avevo almeno un paio ma che me ne piaceva un terzo perché aveva i capelli lunghi. Allora gli mettevo il broncio e lui rideva di me come se fossi la visione più buffa del mondo. Tenevo le braccia conserte e le labbra serrate, gli occhi stretti come quelli di un gatto arruffato. Però lì compravamo cose buone e forse non ho mangiato mai mozzarelle come quelle o sentito più quei profumi di salumi freschi che mi facevano venire l'acquolina in bocca anche al mattino.
Per la strada le persone ridevano, scherzavano, si urlavano da balcone a balcone. Era un'atmosfera surreale, giocosa, scomposta. E mi piaceva, nella sua stranezza la trovavo bellissima, pittoresca, una di quelle cose che non ti scordi più. Avevo imparato a comprendere il dialetto di quelle persone che non conoscevo e che popolavano le strade ad ogni ora del giorno e della notte. Quella lingua armoniosa mi entrò nelle orecchie a poco a poco e tuttora, quando l'ascolto per caso, un po' mi fa battere il cuore.
Era tutto strano per me ma quando poi dovevo ripartire mi veniva nostalgia. Nascondevo una lacrima appoggiando la faccia al finestrino mentre vedevo sfilare via le case, la gente, i panni stesi ovunque, i vicoli, e poi i paesaggi e dunque niente, eravamo già in autostrada.
E allora a volte mi capita di pensarci la notte, nei momenti in cui mi sveglio e fatico a riprendere sonno. Di pensare a quella parte della mia vita che non tornerà più, con la mano stretta in quella di mamma o papà a passeggiare per quelle vie che mi sono rimaste nel sangue, negli occhi, nel cuore. Quegli anni in cui erano tutti più belli e più giovani, in cui gli zii erano ancora vivi, in cui per parlare si urlava e venivamo trattati come stranieri, gente di Roma, e c'erano quelle belle piastrelle in salotto che non scorderò mai.