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Fonte: lightbox |
Il tempo cambia ogni cosa.
O forse siamo noi a cambiare con il passare del tempo, senza che lui c'entri alcunché.
Ad un tratto iniziamo ad erigere corazze, barriere. A metter su scudi, barricate, protezioni. Filo spinato che circondi ogni metro del nostro giardino privato, siepi altissime che oscurino lo sguardo a chiunque gli passi accanto.
Invitiamo sempre meno persone ad entrarvi, in quel giardino. Ci accontentiamo di mostrare qualche rosa al di là di esso, come una facciata, come una parete esposta al sole.
Ci isoliamo, diventiamo una persona qualunque in un mondo pieno di persone qualsiasi con le quali intratterremo rapporti di ogni tipo senza che si sfiori una reale e profondissima intimità.
Restiamo in superficie. Portiamo fuori dal giardino piccole parti di noi stessi, frammenti infinitesimali, schegge di vetro capaci di riflettere un po' di verità ed un po' di illusione.
Ne siamo consapevoli?
Quando lo facciamo, ne abbiamo piena coscienza?
O il tutto avviene segretamente, per dare un senso all'esistenza dell'inconscio? E' lui che opera mentre noi siamo distratti altrove?
Io ho cominciato da tanti anni. Mi vien da dire che ho iniziato giovanissima, come se nascondermi agli occhi dei più fosse parte del mio carattere, un dettaglio già scritto sui filamenti di Dna come il colore degli occhi e quello dei capelli.
Più crescevo e più mi rendevo conto di volermi proteggere. Non perché mi vergognassi di quei fiori che non sempre curavo nel modo giusto, all'interno del mio giardino. Ma proprio perché ci tenevo troppo. Erano miei, belli o brutti che fossero, erano le mie coltivazioni.
Miei e di nessun altro, gli unici possedimenti che non desideravo condividere.
Sapevo di poter offrire altro. La mia amicizia disincantata, le mie spalle su cui piangere, la mia allegria, anche il mio caratteraccio.
Ma quei fiori no, quei fiori li hanno visti proprio in pochi.
Fred.
Daniela.
E quando Daniela ha scelto di uscire dal giardino, salutandomi appena, ho capito che quella porta doveva essere chiusa e mai più riaperta.
Le avevo dato tutto e non era stato sufficiente. D'un tratto non ero più abbastanza.
La convinzione maturò improvvisamente, come quei fulmini potentissimi che arrivano subito dopo il tuono. Si può fermare un fulmine? Gli si può impedire di cadere al suolo?
Non doveva esserci un solo spiraglio. Dall'esterno non doveva arrivare neanche più un flebile alito di vento.
Alzai una barricata, un'altra oltre quelle che c'erano già. Giorno dopo giorno posi un mattone dopo l'altro finché non divenne invalicabile.
Che guardassero Sara dall'esterno. Che la giudicassero attraverso i suoi limiti, le sue schegge appuntite, i mille difetti. Che vedessero il suo sorriso sul lavoro o quei pochi fotogrammi che era in vena di mostrare.
Che osservassero la siepe, il filo spinato, le rose adagiate poco oltre. Andava bene così, va ancora bene così.
E non lo scrivo perché tutto questo mi dia un dolore. Lo scrivo perché un post di Claudia mi ha fatto riflettere, appena ieri, e oggi da quel giardino ho voluto portar fuori un fiore.
Porto fuori fiori continuamente. Ma non permetto a nessuno di entrare e cogliere da sé.