mercoledì 31 luglio 2019

Filo Spinato

Fonte: lightbox


Il tempo cambia ogni cosa. 
O forse siamo noi a cambiare con il passare del tempo, senza che lui c'entri alcunché. 
Ad un tratto iniziamo ad erigere corazze, barriere. A metter su scudi, barricate, protezioni. Filo spinato che circondi ogni metro del nostro giardino privato, siepi altissime che oscurino lo sguardo a chiunque gli passi accanto. 
Invitiamo sempre meno persone ad entrarvi, in quel giardino. Ci accontentiamo di mostrare qualche rosa al di là di esso, come una facciata, come una parete esposta al sole. 
Ci isoliamo, diventiamo una persona qualunque in un mondo pieno di persone qualsiasi con le quali intratterremo rapporti di ogni tipo senza che si sfiori una reale e profondissima intimità.
Restiamo in superficie. Portiamo fuori dal giardino piccole parti di noi stessi, frammenti infinitesimali, schegge di vetro capaci di riflettere un po' di verità ed un po' di illusione.

Ne siamo consapevoli?
Quando lo facciamo, ne abbiamo piena coscienza?
O il tutto avviene segretamente, per dare un senso all'esistenza dell'inconscio? E' lui che opera mentre noi siamo distratti altrove?

Io ho cominciato da tanti anni. Mi vien da dire che ho iniziato giovanissima, come se nascondermi agli occhi dei più fosse parte del mio carattere, un dettaglio già scritto sui filamenti di Dna come il colore degli occhi e quello dei capelli.
Più crescevo e più mi rendevo conto di volermi proteggere. Non perché mi vergognassi di quei fiori che non sempre curavo nel modo giusto, all'interno del mio giardino. Ma proprio perché ci tenevo troppo. Erano miei, belli o brutti che fossero, erano le mie coltivazioni. 
Miei e di nessun altro, gli unici possedimenti che non desideravo condividere. 
Sapevo di poter offrire altro. La mia amicizia disincantata, le mie spalle su cui piangere, la mia allegria, anche il mio caratteraccio.
Ma quei fiori no, quei fiori li hanno visti proprio in pochi.
Fred.
Daniela.

E quando Daniela ha scelto di uscire dal giardino, salutandomi appena, ho capito che quella porta doveva essere chiusa e mai più riaperta. 
Le avevo dato tutto e non era stato sufficiente. D'un tratto non ero più abbastanza. 
La convinzione maturò improvvisamente, come quei fulmini potentissimi che arrivano subito dopo il tuono. Si può fermare un fulmine? Gli si può impedire di cadere al suolo? 
Non doveva esserci un solo spiraglio. Dall'esterno non doveva arrivare neanche più un flebile alito di vento. 
Alzai una barricata, un'altra oltre quelle che c'erano già. Giorno dopo giorno posi un mattone dopo l'altro finché non divenne invalicabile. 
Che guardassero Sara dall'esterno. Che la giudicassero attraverso i suoi limiti, le sue schegge appuntite, i mille difetti. Che vedessero il suo sorriso sul lavoro o quei pochi fotogrammi che era in vena di mostrare. 
Che osservassero la siepe, il filo spinato, le rose adagiate poco oltre. Andava bene così, va ancora bene così.

E non lo scrivo perché tutto questo mi dia un dolore. Lo scrivo perché un post di Claudia mi ha fatto riflettere, appena ieri, e oggi da quel giardino ho voluto portar fuori un fiore.
Porto fuori fiori continuamente. Ma non permetto a nessuno di entrare e cogliere da sé. 

mercoledì 24 luglio 2019

La Vecchina con la Stampella

Fonte: lecodellitorale. it


Dev'esser stata una donna tosta, considerando che lo è tuttora.
Ha circa ottant'anni, i capelli bianchissimi, una stampella che la sorregge ed una grinta niente male. Se ne viene al mare da Genzano con l'autobus, anche in pieno inverno, anche con la nebbia o con la pioggia. La incontro la mattina presto, ci salutiamo, parliamo un poco.
Ora ha preso una casa di fronte alla spiaggia, lo fa da qualche anno. Da sola, senza marito, figli, nipoti. Lei e la sua stampella. 
La incontro spesso con i piedi nell'acqua, che si trascina lentamente sul piede buono, osservando il mare con quello stesso senso di appartenenza che avverto anche in me stessa. 

L'ho riconosciuta. A volte tra mille persone incontri quella a cui ti accomuna un particolare immenso tra tanti minuscoli dettagli che non noti neppure. Non mi importa che abbia cinquant'anni di più. Quella vecchina che l'inverno viene sul lungomare col suo cappotto rosso mi somiglia. E non solo per la scelta del colore, che avrei fatto allo stesso modo anche se di anni ne avessi avuti cento. 
Mi somiglia perché anche per lei il mare è una necessità. Come respirare, mangiare, parlare. Non abbiamo bisogno di dircelo, lo sappiamo e tanto basta. 
Non è qualcosa che si possa spiegare a chi lo cerca solo in tempo di vacanze. E' un bisogno ancestrale, prepotente, un desiderio che si innesca per non disinnescarsi più.
E alla fine diventi così. Una vecchina che si regge a fatica ma che raggiunge il mare con non poche difficoltà perché non potrebbe vivere senza. Perché senza guardarlo, annusarlo, sentirne la brezza addosso morirebbe. 

Guardavo un uomo ieri mattina. Era sotto un ombrellone arancione, con uno sdraio rivolto dalla parte opposta rispetto al mare.
Lo sentiva, ne percepiva le onde dietro la schiena, ma non si curava di guardarlo. Era lì a due passi ma gli era sufficiente quel mormorio d'acqua che si infrange sul bagnasciuga per sentirsi totalmente soddisfatto. Per un attimo ho pensato che si stesse perdendo il meglio: quella visione, quell'appagamento degli occhi, quell'immersione di pensieri e di ricordi e di rumori che il mare prende con sé e trascina via. Lui solo ci riesce, lui solo in un intero universo.
E' stato solo un istante, un momento nel quale ho desiderato di scrollarlo sulle spalle, dirgli girati e guarda. Ma poi ho capito. Ho capito che il mare è un'esperienza diversa per ciascuno. Che ogni persona lo vive in modo diverso, come un farmaco da poter assumere in dosaggi differenti. 
E in quella striscia di spiaggia c'era solo un altro essere umano che potesse capire il mio dosaggio e quella persona era la vecchina con la stampella. Che magari era da tutt'altra parte, ma stava facendo, ne son sicura, le stesse cose che facevo io. 

sabato 20 luglio 2019

34

Fonte: oubliettemagazine. com

Non c'è giorno che io viva peggio del mio compleanno.
E dire che un tempo l'amavo. Poi dev'esser successo qualcosa, perché così come il Natale, ha finito col perdere poesia.
E mentre perdeva poesia, gioia, allegria e spensieratezza, assumeva contorni amarissimi, come quelle ferite tranciate di netto, imputridite nottetempo per l'incuria.
E' diventato una sorta di dolore e sfido chiunque non abbia una propensione masochistica ad amarlo, il dolore. Tra le bozze solo un paio di giorni fa avevo lasciato un post ragionato, forse persino maturo, sul mio trentaquattresimo compleanno. Ma oggi che quel giorno è arrivato mi sento inondare da tutt'altre acque e poco senso avrebbe pubblicare qualcosa che già non m'appartiene più. 
Aveva ragione Eraclito, non ci si bagna due volte nella stessa acqua. Scorrono veloci e intrepide quelle gocce e mai più ritroveremo quelle che ci bagnarono un tempo. 

E' una giornata magnifica. Il mare era fin troppo azzurro persino per i miei occhi allenati. Non ho sentito l'umidità scendermi addosso come una coltre come è successo anche soltanto ieri. Ho girovagato inquieta per nove chilometri e mezzo, pensando alla mia festa saltata, a quel bel vestito chiuso nell'armadio, al senso di solitudine che mi pervaderà quando, stando in mezzo alla gente sul posto di lavoro, la mia anima avrà voglia di scoccare il volo e fuggire via. 
Implacabile tornerà al mare, immaginandolo deserto, ripulendolo dai troppi bagnanti come farebbe un cancellino su di una lavagna. Forse piangerà, interrogandosi ancora una volta sul senso di questa irrequietezza assassina che come un fuoco divampa e poi brucia, annienta, uccide, sfinisce. 

Domani sarà un ventuno luglio qualunque, ma oggi, in questo spazio di irrefrenabile stordimento, sono solo una bambina con i riccioli scuri che non vuole crescere.
Avvolta nel mio mantello rosso come Cappuccetto, abbraccerò il lupo da un lato e la nonna dall'altro, chiedendo ad entrambi di proteggermi presso il sentiero oscuro sul quale mi vedo camminare. 

venerdì 19 luglio 2019

Fiumi di Libri

Leggevo molto, un tempo. Fiumi di libri. Inchiostro nero su pagine bianche che si susseguivano instancabili in qualunque periodo dell'anno. Era quella la mia fuga, quello il mio divagare. Iniziai piccolissima, capii subito che non erano le immagini di un film a potermi appartenere, ma quel correre di lettere sulla carta.
Leggere era il mio silenzio, il mio mondo parallelo, la mia dimora lontana, forse la sola in grado di contenermi. Quelle pareti erano le sole a non farmi sentire costretta ma entro le quali potermi riconoscere come un'anima libera. 
Però via via che passavano gli anni erano sempre meno le storie in grado di catturare la mia attenzione. Leggevo ma non mi innamoravo. Ero diventata troppo selettiva? ero semplicemente cresciuta? avevo forse più voglia di vita vera e meno di vita riflessa? Difficile da stabilire, ma qualcosa era cambiato. 
Ora leggo molto meno e nei libri non mi perdo più. Tra le loro pagine non incontro più me stessa, sono diventata una spettatrice disincantata, forse fredda, sicuramente distante. 


Però un libro che mi ha colpito, negli ultimi tempi, c'è stato. Si chiama Il Danno e l'autrice è Josephine Hart. So che ne è stato un fatto anche un film, di cui so nulla.
A narrare la storia è il protagonista, un uomo di 50 anni che non si dilunga mai. Narra ciascuna vicenda in capitoli brevi, concisi, privi di inutili fronzoli. Va dritto al punto, anche i dialoghi sono sporadici e poco incisivi.
Figlio di un uomo caparbio e determinato, ha sposato una donna bellissima ed elegante e con lei ha avuto due figli. Una carriera da medico priva di passione ma svolta con impegno, con una sorta di metodica da ragioniere che lo ha condotto nella vita con la stessa assenza di pathos. Dunque un impegno politico per accontentare il suocero e la moglie, eseguito anch'esso come un compitino ben fatto in cui spicchi la tecnica e manchi l'emozione.
Un'esistenza gestita attraversando fatti e persone senza mai un tremolio, un cedimento, un eccesso di rabbia, anche solo uno starnuto. Così vincente ma fondamentalmente piatta da chiedersi se fosse stato lui l'attore principale o solo una timida comparsa.
Tutto cambia quando questo dottore, marito, padre, uomo politico incontra Anna. Che non è una donna qualunque, ma è la donna di cui suo figlio si innamora. Trentatré anni, caschetto di capelli lisci scuri, un passato di cui non si sa nulla.
Quando lei gli si presenta il suo cuore perde un battito. E' spacciato. In quell'istante che non dura più di pochi brevissimi secondi, lui comprende che la sua vita non potrà più procedere su quei binari perfetti, ma dovrà prendere un'inclinazione differente, scabrosa, di quelle che non immagineresti mai ma che non puoi realmente evitare. Come un destino scritto, una condanna, un'esecuzione. 
Anna è ossessione, delirio, vittima e carnefice, problema e soluzione. 

Il libro finisce male, come sempre finiscono male le storie in cui un protagonista che ha sempre vissuto una vita vuota d'emozione ne conosca una che poi lo sfinisca. 
Chi era dunque, quell'uomo? Quell'uomo è i suoi primi 50 anni? Quell'uomo è ciò in cui l'incontro con Anna l'ha trasformato? Era legno secco in attesa di esser fatto divampare? 
Io penso che fosse entrambe le cose. Il binario perfetto e quello difettato. La strada giusta e quella sbagliata. Il giusto e l'errore. Ma che fosse più quest'ultimo, in fondo, perché il solo capace di farsi "sentire". 

mercoledì 17 luglio 2019

Una Cosa Da Niente

Fonte: Repubblica


E' arrivata la stanchezza, puntuale come ogni anno, quasi fosse dotata di un orologio biologico interno a cui sia complicato sfuggire. 
Ero impegnata a non pensarci, a riprendere le mie solite attività dopo i problemi di salute. Impegnata a godere del sole, dell'estate, del mare in tutta la sua forza.
Così presa da questo tripudio di colori da non rendermi conto che già mi serpeggiava addosso, che iniziava, come un morbo, ad impossessarsi di me. Partita dal basso, lenta, meschina, si nascondeva per non farsi scorgere.
Ma quando poi è arrivata su, indisturbata, mi ha vinta subito.
Non avevo cecchini sulle torri, non avevo previsto di metter coccodrilli nei fossati. Ero così felice di questa mia rinnovata sensazione di gioia che non ho pensato ad altro che non fosse goderne appieno.
Dovevo prendere tutto. La brezza, le albi in spiaggia, il sudore sulla schiena, dovevo persino fare il pieno di quell'asfissiante umidità che già dalle prime ore del mattino ricopre il verde come una nebbia.
Ne avevo un bisogno così forte ed intenso e fondamentalmente disperato, che qualunque altra cosa è passata in secondo piano, anche il fatto che mi stessi stancando e che stare dietro a tutto stava diventando nuovamente oneroso.
Me ne sono accorta davvero soltanto la settimana scorsa. In negozio c'era una famiglia di pazzi che gridava a più non posso, uno sull'altro, incapaci di una comunicazione educata se non civile. 
Quegli schiamazzi, a cui in fondo avrei potuto resistere moderatamente due mesi prima, la settimana scorsa mi hanno spento il cervello.
Improvvisamente ho sentito solo il mal di testa, un martello pneumatico che si spingeva irruento sulle tempie e poi scendeva più giù, oltre le ossa temporali. Ero spacciata, la stanchezza era già lì e non avrei più avuto modo di difendermi.
I giorni successivi mi sono trascinata con la stessa mollezza d'intenti. Leonessa al mattino, già solo una gattina spelacchiata al pomeriggio. 
Le urla, le persone ammassate, le mille operazioni da portare a termine, il fiato che tornava corto...proprio quel fiato che ogni giorno devo allenare, come un muscolo da non inflaccidire più. 
E' dura trascorrere ore in mezzo alla gente, ancor più dura in estate, quando i difetti sono portati all'eccesso, quando il caldo esaspera le menti, quando smettono di regolarsi. 
E' dura per una persona come me, che brama il silenzio quasi fosse una coppa da alzare gaudente dopo giorni di estenuante corsa. 
E' dura ma si può fare, lo faccio ormai da tanti anni. Devo solo riuscire ad arrivare viva, sana e con la fedina penale pulita alla metà di agosto. Una cosa da niente, in fondo.

lunedì 15 luglio 2019

Farfalle

Fonte: LifeGate. it


La domenica è già soltanto un ricordo, volata via con la stessa immancabile leggerezza delle cose belle. Come una farfalla ha girato l'angolo e non c'era più. 
E' di nuovo lunedì, di nuovo indolenza e desiderio di trattenere più a lungo possibile quelle sensazioni molli, di chi riesce a trascorrere ore felici e vorrebbe poterle almeno riguardare in santa pace.

Abbiamo pranzato in una deliziosa fattoria.
In alcuni momenti catturavo con lo sguardo quello che avevo intorno e mi sembrava di essere a casa mia, quella in cui sono nata, per certi versi simile.
Avvertivo il profumo della natura, osservavo l'abbondanza di fiori rossi, le panche di legno, gli alberi fitti. Mi sono sentita come se fossi già stata lì, come se avessi già calpestato quell'erba, come se avessi già mangiato su quel tavolo.
Non era mai avvenuto prima, ma la somiglianza con certi luoghi delle mie parti era tale da sentirmi a casa. Era un deja vu, uno di quelli fra le cui braccia ti abbandoni volentieri. 
Per un'ora o poco più ho avuto l'impressione di essere in mezzo alle mie campagne e non in un posto a pochi chilometri dal mare.

E' bello sentirsi a casa e stupefacente quando questo accade in un posto in cui non eri mai stata.
Forse tutti i luoghi del mondo ci appartengono già, più o meno intensamente. Forse custodiscono già qualche pezzo di noi, da qualche parte. Un pezzo che prima o poi torneremo a prendere, o che lasceremo lì per la volta successiva.
Mi piace pensare che quella fattoria possieda qualche frammento di me in attesa di essere ritrovato. Tornerò per la mia personalissima caccia al tesoro e nel frattempo immaginerò sotto quale sasso, presso quale anfratto, su quale fronda d'albero io possa essermi nascosta. 

martedì 9 luglio 2019

Sabbia Annacquata

Fonte: meteowe. eu


Sono in terrazzo a guardare la pioggia che cade poco oltre.
Una pioggia che in realtà è sabbia annacquata che scende dal cielo. Tutt'intorno è una coltre di umidità che avvolge ogni singolo albero, ogni persona che si trovi malauguratamente sull'asfalto, ogni automobile parcheggiata, ogni uccello in volo.
Un'afa che spezza il respiro e a tratti ti stordisce come un canto omerico di sirene. 
E nonostante questo stare male, io sto bene. Sto bene perché è estate, perché la mattina alle 5:30 il mio corpo si sveglia, vigile, ed è già pronto e attivo per una nuova giornata.
A quell'ora non penso ai mille impegni che mi aspettano, al lavoro, alla casa da sistemare, a questo caldo asfissiante. Penso solo di dovermi vestire in fretta, fare colazione ed uscire.
E quando poi sono fuori, in mezzo a quel deserto, a quella fissità di cose, a quell'immobilità che investe case e persone, io finalmente torno me stessa.
Come se tutte le ore precedenti, persino quelle del sonno, non fossero state altro che un tiepido intermezzo per arrivare a quel momento. Lì sono io e tutto m'appartiene. La strada, le note di sottofondo, quel primo timido traffico del mattino, il mio corpo per intero.
Soprattutto quel corpo, che devo sentire appieno per provare pace. Le gambe, le braccia, i capelli sulla schiena, quel collo che mi fa tanto penare, persino le viscere. Quasi mi sembra di avvertire gli organi che pulsano, il loro incessante lavorio, quel mormorare di cellule nel loro liquido interstiziale. E allora mi sento viva, viva come si può essere solo quando si fa qualcosa che piace davvero, qualcosa che non è dovere, non è passare inutile del tempo, non è banale noia né sbadiglio.


giovedì 4 luglio 2019

Sul Cuore

Fonte: Gadget4Entertainment


Emma sta crescendo, tra poco più di un mese festeggerà il suo primo anno di vita.
E se ci penso mi fa sorridere che sia nata proprio la notte di San Lorenzo, come una stella cadente finita improvvisamente tra le mie braccia. 
Non potevo sapere che l'avrei amata così. Non potevo sapere che tenerla addosso e stringermela al seno mi avrebbe fatto impazzire di felicità. 
Emma è un regalo, uno di quei doni che non ti aspetti, che ti arrivano improvvisi e di cui puoi solo sentirti grata. Non credevi di averne bisogno, non ci avevi mai neanche pensato, ma poi arrivano e un giorno ti chiedi come facessi prima.
Prima di quei sorrisi sdentati, di quel visetto liscio, di quelle gambette sode, di quella tenerezza che t'infrange il cuore e poi te lo risana. 
Vedo bambini ogni giorno, li accarezzo, li cullo. Ma nessuno di loro è come Emma.
Lei è amore allo stato puro. Sorto non si sa bene come, ma poi esploso in tutta la sua forza.

Quando la vedo arrivare lascio tutto quello che sto facendo e corro da lei. Ancor prima di salutare i suoi genitori, io sono lì a reclamare di tenerla in braccio.
Allunga le manine, mi sorride, ridiamo insieme come due gemelline folli di età tanto diverse. Me la tengo addosso e mi sento impazzire di gioia, di amore, di tenerezza, di tutti quei sentimenti fantastici e dolorosi che squarciano il petto e restano lì a lungo.
La sento dentro di me come se di me fosse un pezzo. Forse non il pezzo più conosciuto, forse neppure quello a cui ho dato più spazio. Però adesso è lì e la sento scalciare con prepotenza durante il giorno.
L'amore, semplicemente, succede. Ti cade addosso, improvviso, e poi si prende tutto. Si scava uno spazio, il suo spazio, che prima non c'era e poi diventa sempre più ampio fino a possedere di te il più possibile. Ed Emma è lì, in quello spazio che non c'era e che ora è diventato così grande da poterci star comode in due.