Fonte: gennarocucciniello. it |
Mi piace il silenzio, soprattutto a fine giornata.
Mi piace l'idea di un mondo che si spegne, di voci che si attenuano, della vita che a poco a poco si addormenta.
Ci sono momenti, come quello in cui scrivo, nei quali anche un minimo spostamento d'aria può recarmi fastidio, farmi irrigidire.
Le voci della tv, i cani dei vicini che abbaiano, una madre che urla dietro i figli, il rumore della lavastovoglie, persino questo ticchettio sui tasti.
Sono passate le ventidue da neanche trenta minuti e vorrei arrivare al sonno dopo aver sperimentato almeno un'ora di sana e profondissima quiete.
E invece vivo in una piccola casa nella quale la camera è accanto al salotto ed io che agogno questo dannato ma sacrosanto silenzio, devo ascoltare mio malgrado la tv a due passi da qui. Io che non la vedo mai sono costretta a subirne gli schiamazzi, come una sorta di legge del contrappasso che mi obblighi a soffrire la presenza di tutto ciò che più detesto.
E allora mi vedo in questo girone infernale a correre, trafelata stanca e sudata, inseguita da frastuoni a cui non ho la possibilità di sottrarmi.
Oggi in negozio sono entrate due donne con due bambine. Sono rimaste per una mezz'ora, forse poco di più. E per tutto il tempo non hanno fatto altro che gridare l'una contro l'altra, in una comunicazione forzata e fastidiosissima che mi ha scosso i nervi al punto di aver provato anche io il desiderio di urlare.
Di zittirle, di farle tacere, di far comprendere quanto maleducato sia imporre agli altri i propri rumori.
Esiste un luogo dove io possa bere da questa coppa?
Un luogo dove possa far riposare il cervello, cancellare i suoni?
Ricordo che da bambina e da adolescente, quando gli adulti prendevano il caffè, io dovevo restare lì ad ascoltare quel sovrapporsi di chiacchiere anche se desideravo andare via. Starmene per conto mio, coltivare la calma, passare del tempo sola con me stessa. Ma tutte le volte in cui cercavo di sottrarmi a quella tortura venivo ripresa, sgridata, trattata come una figlia degenere e asociale.
E allora c'erano altre grida, poi sguardi di biasimo. Ed infine la sensazione di non essere come gli altri che si annidava, che trovava terra fertile sulla quale prosperare.
Io dovevo apprezzare quelle voci convulse, quello spostamento di sedie, quel tintinnio di cucchiaini sulle tazze, persino la tv anche se non la guardava nessuno. Chissà perché un po' mi viene il magone nel ripensare a quella forzatura, a quanti anni ho dovuto presenziare a quei noiosissimi e quotidiani consessi anziché fuggire. Semplicemente fuggire, assentarmi, mettere in pausa la mente dopo ore di scuola e poco prima di altre ore passate sui libri. Quello era il mio tempo libero e non mi apparteneva. E la verità è che non mi appartiene neanche ora.