Quel pomeriggio, arrivata ad Arquata del Tronto, mi sono trovata di fronte ad un paese fantasma.
Tutta la parte iniziale del luogo non contiene altro che macerie.
Case distrutte dal terremoto e mai più rimesse in sesto. Scheletri di un passato abbandonato, lasciato morire, mai più ricostruito.
Non un negozio, una piazza, un luogo di aggregazione di qualche tipo.
Intorno le montagne, lì in mezzo una solitudine spiazzante.
Poi un container di lamiera grezza. Grosse finestre.
Di fronte alcuni anziani a parlottare. Dentro, abbastanza grande da contenere un po' di tutto il necessario.
Altri due tavolini, altri anziani a parlottare.
Il barista, un uomo gentile, sorridente e cordiale.
Il bagno, uno dei più grandi nei quali sia entrata.
Poi altre casette, anch'esse prefabbricate, dove il paese aveva dovuto spostarsi.
Un colore per ogni casa. Un tabaccaio.
Nessuna privacy.
Le stesse persone ogni giorno, sempre meno suppongo. Le stesse facce, la stessa assenza di prospettive.
Me ne sono andata con il cuore in gola.
E anche se è passato un mese da quel giorno, continuo a pensare al Bar Blu, a quelle persone riunite lì magari senza consumare neppure un caffè. Perché altrimenti, che fai? non hai più casa tua, magari i figli se ne sono andati a lavorare in un posto lontano, il tuo appartamento è uguale a quello di tutti gli altri e può contenere solo il minimo indispensabile.
Allora entri al Bar Blu, fai due chiacchiere, passi la giornata.
Chissà se lo sa, quell'uomo che lavora lì, di star salvando quella gente dalla pazzia.